lunedì 16 maggio 2011

Un libro sull'immigrazione che fa discutere la Francia


Recensione a M. Tribalat, Les Yeux Grands Fermés: L'immigration En France, Paris, Denoël, 2010, 226 pp., 19 €
Di Asher Colombo, Università di Bologna

Gli immigrati sono necessari perché costituiscono la risorsa principale e irrinunciabile per risolvere i grandi problemi demografici dei paesi europei: riduzione della fecondità, invecchiamento della popolazione, crescita del rapporto tra numero crescente di anziani e quello declinante dei giovani, riduzione della quota di popolazione attiva. Gli immigrati sono necessari perché, senza, i nostri mercati del lavoro non reggerebbero e interi settori produttivi scomparirebbero o sarebbero seriamente minacciati. Gli immigrati sono indispensabili all’Europa perché, senza, non saremmo in grado di sostenere i nostri asfittici e impoveriti welfare states. 

Queste opinioni formano la cornice sulla quale, ormai, è totalmente schiacciato il dibattito sull’immigrazione in Francia, in gran parte dei paesi europei e tra le élites politiche dell’Europa comunitaria. Ma queste stesse opinioni costituiscono anche l’apriori ideologico che, con alcune piccole eccezioni, orienta gran parte della ricerca sociale, sempre più guidata esclusivamente dall’imperativo di opporsi alla xenofobia e al razzismo - la cui pervasività per altro resta tutta da dimostrare – al punto da piegare a questo obiettivo non solo il rigore e l’indipendenza scientifiche, ma perfino la capacità di formulare interrogativi di ricerca adeguati alla complessità del fenomeno.
È soprattutto questo atteggiamento ideologico diffuso tra molti studiosi a costituire il bersaglio di un importante, controverso e coraggioso libro di M. Tribalat: Les Yeux Grands Fermés: L'immigration En France, Paris, Denoël, 2010, 226 pp., 19 €. M. Tribalat è una studiosa nota a chi si occupa professionalmente di immigrazione. Demografa, ricercatrice all’Ined, autrice di vari studi sull’immigrazione, è stata infatti lei a guidare l’equipe che, nell’ormai lontano 1992, avviò quella che a lungo è rimasta la più importante e solida ricerca empirica sugli stranieri condotta in un paese europeo e i cui risultati furono pubblicati in due volumi usciti nel 1995 (M. Tribalat, Faire France: Une Grande Enquête Sur Les Immigrés Et Leurs Enfants, Paris) e nel 1996 (M. Tribalat, De L'immigration À L'assimilation : Enquête Sur Les Populations D'origine Étrangère En France, Paris) e che si è successivamente occupata dei temi della segregazione etnica, delle relazioni di vicinato in quartieri con elevata presenza straniera, dei comportamenti demografici e familiari degli immigrati e dei loro discendenti. In questo nuovo libro, passato inosservato in Italia, ma che ha provocato un dibattito dai toni fin troppo accesi in Francia (tra le numerose recensioni dei lettori apparse sul sito di Amazon.fr non mancano perfino insulti e accuse di razzismo), M. Tribalat, però non presenta ricerche nuove e originali. Il suo obiettivo è piuttosto quello di verificare se i presupposti ideologici da cui gli studiosi d’immigrazione prendono le mosse, reggano o meno quando siano sottoposti a un vaglio critico e rigoroso sulla base delle numerose ricerche e analisi che si sono andate accumulando negli ultimi anni. Fondandosi su una conoscenza ampia e approfondita degli studi più aggiornati e metodologicamente affidabili condotti sulle due sponde dell’Atlantico (in realtà più su quella occidentale), Tribalat smonta gran parte di questi presupposti, ma così facendo l’autrice persegue anche un secondo obiettivo, quello di svelare anche l’infondatezza di gran parte delle idee su cui si basa il dibattito politico, ed è abbastanza chiaro che il suo bersaglio è una sinistra – dai cui ranghi per altro l’autrice proviene - incapace di capire la trasformazione che sta avvenendo sotto i suoi occhi, ovvero l’ingresso dei paesi europei, prima fra tutti la Francia, in un nuovo regime migratorio che cambia regole, dinamiche e processi, e che richiede concetti e teorie nuove.
Il nuovo regime migratorio e le sfide che esso pone ai paesi di immigrazione costituisce proprio il filo rosso dei sei capitoli in cui vene divisa la materia trattata nel volume. La tesi principale è che la Francia, e molti altri paesi di immigrazione europei, siano ormai entrati in un’epoca di migrazioni sempre più familiari e sempre meno da lavoro, e che questa trasformazione porti con sé una conseguenza cruciale, ovvero che le migrazioni sono sempre più processi che si autoalimentano, che dipendono sempre meno dai fattori che le hanno generate e che, proprio per questo, sono anche più impermeabili all’azione dei governi che dovrebbero regolarle. Fin qui non si dice nulla che non sia noto da tempo agli studiosi di immigrazione, ma l’argomento non si arresta a questa osservazione, perché secondo Tribalat questo cambiamento, lungi dall’essere un esito inevitabile di meccanismi impersonali dei sistemi migratori, affonda le proprie radici in scelte politiche deliberate. Il nuovo regime migratorio è un effetto dello sviluppo dei diritti accordati agli stranieri sia dall’interno degli stati nazionali che dal livello sovranazionale (specialmente dalle istituzioni dell’Unione Europea), la cui azione congiunta ha ridotto considerevolmente il margine di manovra degli esecutivi nazionali (p. 14). Lo snodo centrale, secondo Tribalat, è l’adesione nell’immediato dopoguerra degli stati nazionali alle Convenzioni europee per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, e dei protocolli addizionali siglati negli anni successivi. Nati per proteggere le minoranze europee ed evitare in futuro le catastrofi umanitarie del periodo del nazifascismo, questi stessi testi sono diventate il grimaldello per limitare l’azione dei governi in campo migratorio. Anzi lo stato, regolatore dei diritti dei cittadini, è diventato, sulla base dell’interpretazione di queste carte che alla fine ha prevalso su quella più realistica e prudente, l’esecutore delle rivendicazioni di diritti di stranieri sul suolo francese, indipendentemente dalla legislazione nazionale. L’esempio francese mostra proprio i limiti e la sostanziale neutralizzazione della legislazione nazionale sull’asilo dovuta all’azione della magistratura e al richiamo ai principi di quei protocolli (p. 62). Qui Tribalat sviluppa argomenti che a qualunque politico di sinistra, in particolare a un politico di sinistra italiano, farebbero rizzare i capelli in testa, ovvero che gran parte delle politiche migratorie sono inefficaci, e che quindi le migrazioni irregolari sono fuori controllo, a causa della crescente interferenza del potere giudiziario (p. 61) e che questo meccanismo mette a nudo lo scontro tra un potere che si fonda sul consenso democratico e un potere esercitato da personale non eletto, che ha quindi mani libere e non deve rendere conto delle proprie decisioni all’opinione pubblica.
È in virtù di questo quadro giuridico sostanzialmente favorevole all’immigrazione, in particolare nei confronti dell’immigrazione familare, che si può dispiegare pienamente il carattere cumulativo e per certi versi difficile da arrestare, delle migrazioni che interessano l’Europa. In barba all’immagine prevalente, e per Tribalat evidentemente destituta di ogni fondamento, della “Fortezza Europa”, l’immigrazione straniera si è sganciata largamente dal controllo esercitato dagli esecutivi nazionali, dalle politiche migratorie, e si è sviluppata in modo da dipendere di fatto da tre soli fattori: l’anzianità del flusso migratorio, l’ampiezza della popolazione straniera residente nel paese di arrivo, le strategie matrimoniali delle famiglie. Quest’ultimo sarebbe un punto cruciale e sistematicamente trascurato dalle analisi, anche per la difficoltà di ottenere dati statistici affidabili. La questione delle strategie matrimoniali delle famiglie è centrale, e spesso fraintesa. In tutti i paesi europei circola un forte ottimismo riconducibile alla diffusione dei matrimoni misti, considerati un fattore di integrazione. È appena il caso di ricordare che la stessa Tribalat aveva in parte usato proprio i matrimoni misti come indicatori di riduzione delle distanze tra i gruppi nelle ricerche condotte all’inizio degli anni Novanta. Ma gran parte di quelli che appaiono matrimoni esogamici, tra un francese e un/a straniera, sono in realtà matrimoni endogamici, che avvengono all’interno dello stesso gruppo nazionale, tra partner che discendono da genitori o nonni che appartengono allo stesso gruppo nazionale del coniuge pur avendo la cittadinanza francese, un aspetto che non appare, e non può apparire dalle statistiche, in parte perché gli istituti incaricati di raccogliere i dati non li rendono pubblici, in parte perché una parte considerevole di questi matrimoni avviene all’estero (p. 43). Proprio questi matrimoni detti misti, ma che misti non sono, costituiscono sempre più una parte rilevante dell’immigrazione familiare che interessa la Francia in questo nuovo regime migratorio. Tribalat calcola che addirittura due terzi dei matrimoni celebrati in Francia e la quasi totalità dei matrimoni celebrati all’estero costituiscano l’avvio di una storia migratoria verso questo paese (43-44). 
Ma questi cambiamenti restano inesplorati perché avvengono in un contesto caratterizzato dalla subordinazione del dibattito scientifico ad apriori ideologici che hanno radici politiche. Seguendo una strada quasi durkheimiana, Tribalat si concentra sulla confutazione di questi pregiudizi. Vediamo quali sono i principali.
L’apriori demografico costituisce il primo terreno su cui si misura il libro. Il ragionamento che Tribalat oppone all’argomento demografico standard, che vede negli immigrati la soluzione al problema, è molto semplice, banalmente aritmetico. Di fatto, calcola l’autrice, per mantenere il livello demografico attuale attraverso l’immigrazione, un paese come la Francia avrebbe bisogno di un’immissione netta annua di 60 mila immigrati, ma per mantenere intatte le dimensioni delle forze di lavoro ne avrebbe bisogno invece di 136 mila all’anno, e per mantenere in equilibrio il rapporto di dipendenza tra gli ultra  64 enni e bambini fino a 15 anni, il vero nodo cruciale del problema, ne dovrebbe far entrare 1,3 milioni all’anno fino al 2025, che dovrebbero diventare 2,4 milioni dall’anno per il periodo successivo. Per mantenere in equilibrio la sua demografia, quindi, la Francia dovrebbe raggiungere quota 187 milioni di abitanti nel 2050. Davvero, si chiede Tribalat, è questa la soluzione a cui pensiamo? C’è qualcuno che ritiene davvero che livelli di questo tipo siano sopportabili e privi di conseguenze sociali, culturali, politiche (p. 76-7)?
Il contributo degli immigrati ai mercati del lavoro e ai sistemi produttivi costituisce un secondo bersaglio polemico. Si assume che gli immigrati abbiano tassi di occupazione superiori a quelli degli autoctoni, ma questo è vero solo in alcuni paesi, quelli di più recente immigrazione (l’Italia è tra questi). Ma negli altri accade l’opposto, e una delle ragioni è che nel nuovo regime migratorio le immigrazioni familiari pesano più di quelle da lavoro. Ora, in alcune nazionalità, il tasso di occupazione femminile è più basso di quello delle native, anche di molto. Se il peso delle nazionalità in cui il divario nei tassi di occupazione femminile e maschile è alto (leggi immigrazioni da paesi arabi) e se le immigrazioni familiari crescono, ed è appunto ciò che sta avvenendo, questo divario è destinato a crescere e gli immigrati darebbero sì un contributo al mercato del lavoro del paese di arrivo, ma un contributo negativo.
Ma l’analisi non si arresta a questo. Gran parte degli studiosi tendono a usare modelli di indagine non adeguati al difficile compito di cogliere gli effetti dell’immigrazione su salari e occupazione. E qui Tribalat tocca un punto controverso, e oggetto di dispute e dibattiti tra gli studiosi da diverse decadi, e prova a condurre la riflessione il più lontano possibile da qualsiasi tentazione ideologica. Se gran parte degli studiosi afferma che l’immigrazione non ha effetto su occupazione e salari, è perché non tiene conto di un fattore fondamentale, ovvero i destinatari di tali effetti. Per farlo è necessario distinguere la posizione sociale che i lavoratori occupano. Di fatto gli studi più avveduti e metodologicamente più solidi mostrano, infatti, che i flussi migratori esercitano un’azione sulle disuguaglianze salariali. Essi, infatti, riducono i salari dei lavoratori nativi con basso titolo di studio e a bassa qualificazione e aumentano quelli dei lavoratori con qualifiche alte e con elevati titoli studio, oltre al fatto che abbassano per questi ultimi i costi di accesso a determinati servizi a bassa qualificazione (es. servizi domestici privati). Insomma, proprio l’analisi del caso degli effetti dell’immigrazione sui salari e sull’occupazione, mostra in maniera incontrovertibile e nettissima che l’immigrazione non è un processo neutrale sulle società di arrivo. Piuttosto è un fenomeno in conseguenza del quale alcuni perdono, altri guadagnano, e i primi sono proprio i lavoratori a bassa qualificazione con titoli di studio inferiori.
Ma anche l’altra verità indiscussa della posizione aprioristicamente orientata alla vigilanza antirazzista, ovvero quella che considera l’immigrazione aprioristicamente necessaria perché gli immigrati sostituiscono i lavoratori autoctoni nei mestieri da questi rifiutati, appare fragile e non sostenibile, oltre che frutto di una scelta ideologica mascherata. L’ipotesi della sostituzione altro non sarebbe, infatti, che, fondato sul rifiuto di considerare le molte alternative potenziali all’immigrazione per affrontare il problema della penuria di manodopera, che a sua volta poggia sull’interesse al mantenimento dello status quo. T. pensa ovviamente alla crescita del tasso di occupazione, ma nella letteratura scientifica compaiono anche altre soluzioni. Il tema della distribuzione delle attività di accadimento delle persone e di cura degli spazi domestici avrebbe, tanto per fare un esempio adatto al caso italiano, almeno altre due soluzioni: il passaggio da un welfare familiare a un welfare dei servizi e un cambiamento culturale che porti a una maggiore redistribuzione dei compiti domestici tra i generi. La soluzione del ricorso al lavoro straniero, però, non è solo la più comoda e la più semplice, ma anche quella che avvantaggia ulteriormente strati privilegiati della forza lavoro e delle famiglie, e Tribalat ce lo ricorda. Questa soluzione, infatti, consente ai datori di lavoro di disporre di forza lavoro a basso costo, ai consumatori di servizi di potersene procurare spendendo poco, ai lavoratori protetti di non mettere in discussione le proprie garanzie. Sembra la quadratura del cerchio, se non fosse che, guardandolo meglio, il gioco non è a somma positiva, e qualcuno che perde c’è: sono i lavoratori non protetti, esposti alla concorrenza degli immigrati e alle fluttuazioni dei salari.
Ma c’è ancora un altro argomento decisamente diffuso, quello secondo il quale gli immigrati sostengono la finanza pubblica. Tribalat passa in rassegna vari studi che mostrano che questi vantaggi dipendono da due fattori: l’età e la qualificazione della forza lavoro straniera. Ma un’analisi degli effetti di lungo termine del nuovo ordine migratorio suggerisce che immigrazione familiare e alta presenza di lavoratori dequalificati – le due caratteristiche che contraddistinguono tale ordine - producono un costo, non un vantaggio, per la finanza pubblica. Tribala riprende a proposito un aforisma di Milton Friedman, secondo il quale non è possibile avere contemporaneamente immigrazione libera e welfare state (p. 104).
Ma T. affronta anche un altro tema delicato e alle cui porte sembra fermarsi l’analisi scientifica non partigiana, ovvero il tema del razzismo e dell’antirazzismo. La posizione sociale all’interno delle scienze sociali vede negli immigrati solo minoranze soggette a varie forme di oppressione e discriminazioni dalle quali non sono in grado di difendersi (p. 17). Ma le indagini mostrano che a caratterizzare le opinioni pubbliche europee non siano sentimenti xenofobi omogenei e unitari o sentimenti anti islamici.  Piuttosto una parte dell’opinione pubblica nutre sentimenti di forte perplessità verso alcune pratiche sociali e verso alcuni valori professati da alcuni appartenenti ad alcune minoranze, in particolare quella musulmana, e nello stesso tempo giudica imprescindibile l’esigenza di avere il diritto di esprimere intolleranza o avversione nei confronti di questi valori e queste pratiche e di giudicare severamente il limiti del multiculturalismo (p.55). Inoltre, quelle stesse minoranze giudicate incapaci di difendersi, mostrano all’opposto abilità notevoli nell’organizzare collettivamente i propri interessi in molti paesi di immigrazione.
In breve Tribalat scompagina le acque chete della ricerca europea sull’immigrazione e lancia una sfida a quegli studiosi nel campo delle scienze sociali, che in questi anni hanno fatto poco altro che riprodurre stancamente risultati e opinioni tanto note quanto infondate. Se il libro ha una debolezza, però, forse questa è ravvisabile nella eccessiva personalizzazione con cui T. intreccia le vicende delle scienze sociali con la propria biografia personale e con i conflitti che l’hanno contrapposta ad alcuni colleghi e ai vertici delle istituzioni scientifiche con le quali ha collaborato. È la parte, a giudizio di chi scrive evidentemente, meno interessante, e perfino forse eccessivamente lunga del libro. Chiariamo. Bene fa Tribalat a condurre, contestualmente agli argomenti trattati nel libro, una lotta per la pubblicità e la utilizzabilità dei dati scientifici (un tema che nessuno solleva in Italia, ma che costituisce invece un nodo cruciale in un paese in cui la pubblicità dei dati, in particolare di fonte amministrativa, resta una chimera). Ma mettere al centro una vicenda personale, la rabbia di una studiosa in lotta contro le istituzioni che detengono il dato statistico e le polemiche con i colleghi finisce con l’indebolire un po’ l’argomento, che richiederebbe, invece, di essere trattato del tutto al di fuori di vicende personali.
(in attesa di pubblicazione sul Magazine di Democratica)