venerdì 11 dicembre 2009

Un giorno al Cie con i clandestini tra letti di cemento e vetri rotti (Corriere di Bologna, venerdì 11 dicembre 2009, pp. 1 e 8)

Il Centro di identificazione e di espulsione che costeggia il lato nord di via Enrico Mattei a Bologna viene definito da chi lo gestisce come un centro modello. Probabilmente lo è, in confronto ad altri che chi scrive non ha visitato e comunque in confronto ai giorni in cui non sono previste visite programmate, come quella che ho avuto l’opportunità di fare domenica scorsa, insieme all’on. Salvatore Vassallo, in occasione dell’iniziativa “Il ponte dell’Immacolata nei centri per immigrati”. L’erogazione di servizi di consulenza legale, l’assistenza psicologica e il lavoro dei mediatori linguistici e culturali, perfino il servizio di recupero dei beni personali per chi viene dal carcere e dei compensi non riscossi per chi lavorava in nero al momento della cattura, vengono descritti in modo soddisfacente anche dagli ospiti. Eppure il visitatore ingenuo ed esterno, che gode dell’indubbio vantaggio di non condividere l’assuefazione di chi ogni giorno vi lavora, riceve dall’esperienza svariati pugni nello stomaco. Soffermiamoci solo su due aspetti: le condizioni della struttura e la funzione che questa svolge.
La struttura è un luogo circondato da alte inferriate, in cui gli, e le, “ospiti” risiedono in stanzoni letteralmente cinti d’assedio dai piccioni e dalle loro produzioni non certo salubri. All’interno solo un tavolo di plastica e quattro o cinque letti, in cemento dato che qualsiasi altro materiale è sconsigliato per evitare il rischio che ne venga fatto un uso improprio. Al di sopra dei “letti” un blocco di gommapiuma come materasso, un foglio di carta sudicio come lenzuolo e un paio di coperte. Le condizioni dei servizi igienici sono quelle di una struttura pensata per un altro scopo, con impianti vecchi e fatiscenti, a volte intasati o inutilizzabili, comunque decisamente sporchi. A qualche finestra manca un vetro, e un sacco di plastica sostitutivo, attaccato con nastro adesivo, non risolve evidentemente il problema del freddo, così ulteriormente aggravato. Il fatto che parte di queste situazioni (piccioni, vetri rotti ecc.) siano da addebitare anche ad alcuni “ospiti” consola poco; la responsabilità di garantire determinati standard a persone la cui libertà viene limitata non spetta evidentemente a questi ultimi, bensì a chi ha stabilito che essi debbano stare dentro anziché fuori.
Ma è proprio da qui che nasce la seconda considerazione. I centri di identificazione e espulsione sono nati come strutture destinate al trattenimento e all’espulsione degli stranieri extracomunitari rintracciati nel nostro paese senza un titolo valido di soggiorno. A differenza di quanto si potrebbe pensare, però, gli stranieri che hanno a loro carico solo questa infrazione costituiscono solo una piccola parte degli “ospiti”. In pratica il Cie si rivela una struttura “flessibile” la cui popolazione è altamente selezionata in base a criteri del tutto discrezionali. In queste strutture, infatti, qualche badante che lavora in nero per le nostre nonne e qualche muratore che, sempre in nero, ci costruisce le case, privi del permesso di soggiorno - magari fermati mentre caricavano beni da inviare a casa su un pulmino, oppure mentre si recavano semplicemente in visita a un familiare in un’altra città - finiscono per trovarsi a stretto contatto con altri stranieri irregolari sì anche loro, ma appena usciti dal carcere per aver commesso vari reati, e in attesa di essere identificati o espulsi. Così il Cie spinge i primi a entrare in contatto con un ambiente, quello della malavita, rispetto al quale sono del tutto estranei ma di fatto dominante all’interno di queste strutture. Tale promiscuità produce anche effetti perversi decisamente seri nei confronti degli “ospiti”, uno dei più gravi legato alla circolazione della droga all’interno delle strutture. Come raccontano nell’infermeria del centro stesso, non è infrequente che ospiti negativi ai test per l’uso di droghe all’ingresso, risultino poi positivi agli stessi test dopo qualche tempo di permanenza nel centro.
Alcuni pensano che questi Centri siano dei lager e che costituiscano una vergogna per la nostra democrazia, altri pensano che siano l’unico strumento per affrontare il problema dell’immigrazione irregolare. Iperboli e estremizzazioni non aiutano a capire. Chi ne visiti uno semplicemente ne esce diverso da come era entrato, e pensa che, finché esistono, i Cie dovrebbero essere luoghi sicuri, in cui siano garantite condizioni di vita, assistenza sanitaria e certezza del diritto piene e incondizionate. E pensa che, in una città come Bologna, neanche uno straniero irregolare debba patire il freddo o trovarsi in condizioni di vita umilianti in una struttura pubblica. Ma questo significa, ovviamente, spendere più risorse, come quelle necessarie per edificare strutture dedicate e per rendere civili e funzionali quelle esistenti. Al di fuori di questa strada tali strutture svolgono solo in parte la funzione di controllo dell’immigrazione irregolare, e assai più quella di distribuzione di sofferenze e di iniquità aggiuntive.