domenica 15 novembre 2009

La sanatoria per le badanti e le colf del 2009: fallimento o esaurimento di un modello?

Pochi osservatori ed esperti, anzi nessuno, nutre oggi dubbi sul fatto che l’emersione collegata alle norme anticrisi emanate da Tremonti nell’agosto di quest’anno – tra sanatorie, regolarizzazioni e decreti flussi estesi, di fatto il settimo allargamento straordinario dal 1986 – sia stata un fallimento, o un flop . Al momento della sua chiusura, il 30 settembre, le domande inviate erano 294.744 . Nonostante le smentite a posteriori da parte dello stesso ministero , i numeri previsti, tanto dai promotori del provvedimento che dagli esperti, erano di gran lunga superiori. Secondo le dichiarazioni del Viminale, almeno per come esse sono state riportate dalla stampa, il numero di domande attese variava da un minimo di 500 mila fino a un massimo di 750 mila, e lo stesso Viminale precisava che proprio quest’ultima era la stima per la quale gli uffici si stavano attrezzando . Corrispondenti a queste dimensioni erano le aspettative riguardo all’incasso che sarebbe derivato dalla sanatoria, stimato tra i 300 e i 450 milioni di euro subito, per arrivare fino a 1,6 miliardi nell’arco del primo anno di lavoro dei neoassunti, in virtù dei versamenti tributari.
Non diverse le opinioni degli esperti. I responsabili del Dossier statistico della Caritas Migrantes, una delle fonti più accreditate presso i mass media del nostro paese e più citate da questi, dichiaravano una stima di 500 mila colf e badanti irregolari. Non solo, ma evocando una legge per cui i sans papier devono essere, nel complesso, il doppio delle lavoratrici domestiche irregolari, avevano colto l’occasione per proporre una stima di un milione di stranieri privi di un titolo di soggiorni valido . È giunto forse il momento di interrogarsi sulla pratica abituale nel nostro paese di diffondere numeri in assenza di basi informative solide. Sarebbe bastato prendere sul serio i risultati delle indagini campionarie annuali dell’Istat sulle famiglie italiane, per rendersi conto di quanto quei numeri fossero esagerati. Secondo queste indagini, la quota di famiglie che in Italia si avvale di lavoratori domestici – in regola o meno - si aggira attorno al 10%, quindi poco meno di due milioni e mezzo di famiglie. A differenza di una percezione diffusa però, di questo 10%, solo il 2,2% è fatto da badanti. Ora, mentre nel caso delle badanti è ragionevole attribuire a ciascuna famiglia una lavoratrice, nel caso delle colf questo calcolo è assai meno ragionevole. Le colf, infatti, lavorano spesso per più di una famiglia. Di conseguenza bisogna probabilmente calcolare almeno due, ma forse anche tre o quattro famiglie per ogni colf. Otteniamo una cifra pari a circa un milione di lavoratrici. Ora, alla fine del 2007 le lavoratrici domestiche straniere presenti negli archivi dell’Inps non raggiungevano il mezzo milione, quelle italiane superavano i 100 mila, per un totale di 600 mila lavoratrici e lavoratori. Ne mancano all’appello 400 mila, quindi, non 500, tanto meno 750. Ma da queste 400 mila va anche tolta una quota, non di scarso peso, di lavoratrici italiane che, potendo lavorare in nero, non hanno bisogno né di sanatorie né di emersione. Se consideriamo un rapporto di 1 lavoratrice italiana per 4 straniere, pari a quello rilevabile negli archivi dell’Inps, scendiamo a 300 mila, ma probabilmente la cifra è più bassa perché nel sommerso la forbice tra straniere e italiane dovrebbe ridursi, piuttosto che accentuarsi.
Come non bastasse, gli stessi dati Istat, per altro questi mai presi in considerazione dagli osservatori e dai mass media, che prediligono fonti mediaticamente più attraenti, mostravano che nell’ultimo quindicennio circa la quota di famiglie che ha fatto ricorso ai servizi domestici privati non era mai cresciuta. Eppure, come vedremo, la tesi del fallimento della sanatoria resta dominante, e viene di fatto considerata non discutibile. L’accettazione acritica di questa tesi invoglia a cercare le spiegazioni del flop nelle maglie del provvedimento in sé. A cui si sommano le responsabilità attribuite allo scarso senso civico delle famiglie italiane e, naturalmente, gli effetti della crisi economica. Alcune di queste spiegazioni contengono più verità di altre. Ma tutte appaiono insoddisfacenti. Cercheremo nelle prossime pagine di capire il perché.
Prima di iniziare vale, però, la pena di riflettere ancora un momento sul punto sollevato, ovvero la documentata esagerazione delle stime del numero di lavoratrici, e lavoratori, domestiche sanabili. Su cosa si basavano allora queste stime al rialzo? Probabilmente sono due le ragioni che hanno spinto a sopravvalutare a tal punto le stime. La prima è per così dire politica. La tendenza, in questo campo, alla contrapposizione spinge da una parte a retoriche decisamente aggressive nei confronti degli stranieri e, dall’altra, a esagerare le dimensioni del fenomeno con l’intento di presentarlo con l’ineluttabilità della forza dei numeri, quando il fenomeno in questione, invece, possiede già, in sé, dimensioni cospicue. La seconda ragione ha invece probabilmente natura contabile. Esiste, infatti, uno scarto molto rilevante tra le domande pervenute per i decreti flussi degli ultimi due anni (2007 e 2008) e i permessi di soggiorno effettivamente rilasciati. L’idea che lo scarto tra queste due misure costituisse lo stock delle lavoratrici domestiche irregolarmente presenti sul nostro territorio, e quindi di immigrati in attesa di avere la sanatoria, può avere indotto a un errore di composizione; a considerare, cioè, pari al numero della domande inevase quello degli irregolari. Tale scarto e le stime della sanatoria coincidono in maniera quasi sospetta. Si è però dimenticato in questo calcolo che, a differenza di quelle del passato, la sanatoria del 2009 è stata estremamente selettiva, limitata, com’era, a una sola specifica categoria di lavoratori. Come si è dimenticato che una parte dei richiedenti il visto di ingresso sulla base dei decreti flussi potrebbe avere preso sul serio la normativa italiana, e quindi avere avanzato la richiesta di nulla osta dal paese di origine, non dall’Italia.


Una montagna di rifiuti: le politiche di ingresso regolare e la svolta del 2007

Si può affermare che le sei sanatorie che hanno preceduto quest’ultima, abbiano funzionato, se esaminate sotto il profilo della loro capacità di assorbire e regolarizzare chi aveva la volontà di farlo. Non senza alcune oscillazioni, in queste sanatorie la quota di domande accolte sul totale di quelle presentate ha variato da un minimo di 70%, nel caso della Turco-Napolitano del 1998, al 92% della Bossi-Fini fino al 96% della Dini del 1998. Quanto all’allargamento del decreto flussi del 2006 stabilito dal governo Prodi, invece, sappiamo che oltre un terzo delle domande pervenute è stata respinta, come mostra la tab. 1. È stata proprio quest’ultima, quindi, la più selettiva tra le sanatorie lanciate fino a quel momento, almeno quanto a capacità di filtro della legittimità delle domande pervenute. Ma un altro elemento nuovo caratterizzava questa sanatoria, un elemento già segnalato ma rimasto sostanzialmente senza spiegazioni soddisfacenti . In questo provvedimento, infatti, si rilevava una quota tutt’altro che trascurabile, di poco inferiore a un quinto, di visti rilasciati - quindi di esiti positivi di domande accolte - che non si era tradotta nel rilascio dei corrispondenti permessi di soggiorno. Un’anticipazione di una tendenza che si sarebbe consolidata negli anni successivi.
L’anno dopo abbiamo il decreto flussi con i ben noti tre click day . Il numero di domande pervenute supera perfino quello del decreto flussi allargato dell’anno precedente: oltre 741 mila, di cui poco oltre 140 mila da parte di datori di lavoro di lavoratrici domestiche, destinatarie di uno dei tre click day. Non trattandosi di una sanatoria, ma di un decreto flussi che prevedeva per quell’anno 170 mila posizioni, è facile calcolare quanto alto sia stato il numero degli esclusi dal provvedimento. Ma prima di questo è bene anche dire che, a tutt’oggi, e quindi ancora di più al momento dell’uscita del provvedimento di emersione, solo una parte di queste domande è stata vagliata e, quindi, accolta o respinta. I conti non sono semplici. Allo stato tra nulla osta rilasciati e domande non accolte si arriva a oltre 233 mila domande effettivamente vagliate, pari a meno di un terzo. Questo numero sovrastima lievemente il numero delle domande esaminate perché è stato ottenuto sommando due entità non mutuamente esclusive, ovvero quella degli esiti negativi delle Direzioni Provinciali del Lavoro e delle Questure che possono trattare contemporaneamente le istanze ricevute, ed è quindi possibile che una stessa domanda sia respinta per vizi riscontrati tanto dalle prime quanto dalle seconde. Di fatto, quindi, la quota di domande lavorate, a due anni di distanza dalla chiusura dei click day, è, al massimo, pari a un terzo, forse un po’ meno, del complesso di quelle presentate. Ma, come nel caso del decreto del 2006, anche qui solo alcuni permessi sono stati effettivamente richiesti. Delle oltre 230 mila domande esaminate, un terzo è stato respinto, e dei poco più di 150 mila nulla osta rilasciati, solo due terzi hanno dato luogo a richieste di rilascio di permesso di soggiorno. Chi ha steso il provvedimento dell’ultima sanatoria sapeva, quindi, che almeno 480 mila richiedenti erano esclusi fin dall’origine, perché fuori quota, che una parte degli inclusi si era vista respingere la propria domanda, e che una parte di coloro la cui domanda era stata accolta non aveva mai richiesto il permesso di soggiorno. E sapeva che una quota parte, probabilmente non la più numerosa però, di questo quasi mezzo milione di esclusi era formata da lavoratrici domestiche.
La tendenza descritta si espande ulteriormente l’anno successivo, in occasione dell’uscita del decreto flussi del 2008 . Il decreto metteva a disposizione 150 mila posti, ma le domande superarono quota 380 mila. Che ne è di queste domande oggi? Allo stato meno di un decimo è stata esaminata, e metà di quelle esaminate è stata respinta. Ma anche in questo caso solo una piccolissima parte delle domande accolte si è tradotta in richieste di permessi di soggiorno: 1.600 (pari allo 0,4% delle istanze presentate e all’8% dei nulla osta rilasciati).



È difficile spiegare le ragioni di questo fenomeno. Probabilmente le lungaggini burocratiche giocano un peso. Ma qualunque sia il motivo, è chiaro che la capacità di far uscire dal sommerso, assai solida fino al 1998, dà oggi segni di cedimento: 50% di permessi rilasciati sul totale delle istanze presentate nel 2006, 14% l’anno dopo, 0,4% nel 2008. Che l’efficienza delle sanatorie fosse in calo era nota a chi aveva analizzato gli esiti della legge Bossi-Fini, per cui sappiamo che una quota comparativamente superiore a quella delle sanatorie precedenti è ricaduta nell’irregolarità allo scadere del primo permesso di soggiorno, in virtù del meccanismo del contratto di soggiorno. Nel caso delle sanatorie precedenti, questa quota era, come detto, trascurabile. Ma ora l’inefficienza dei provvedimenti sembra collocarsi ancora più a monte, addirittura al momento della consegna dei permessi di soggiorno dopo il rilascio dei nulla-osta.
Che il fenomeno non fosse ignoto alle burocrazie ministeriali, però, lo dimostra la presenza di un articolo contenuto nel provvedimento secondo il quale l’eventuale dichiarazione di emersione del 2009 determina la rinuncia alle richieste di nulla osta al lavoro subordinato presentate in occasione dei due precedenti decreti flussi del 2007 e 2008. Questa norma mostra quanto sia diffusa l’idea che i decreti flussi riguardino lavoratori già in Italia, anziché all’estero. Si tratta di un assunto alquanto discutibile alla luce delle conoscenze disponibili. Queste fanno invece pensare che i decreti flussi riguardino sempre più lavoratori all’estero e che tra questi il peso delle migrazioni a catena sia crescente, mentre quello delle regolarizzazioni mascherate sia decrescente, come mostrava l’analisi dei dati contenuta nel Primo rapporto sull’immigrazione del Ministero dell’Interno pubblicato nel 2007 .



L’Italia: la bella di Torriglia del sistema migratorio europeo?

Indipendentemente dal fatto che le stime della presenza di lavoratrici domestiche irregolari fossero eccessive o meno, le condizioni dell’emersione sono sembrate a molti estremamente restrittive e fonte di difficoltà per i candidati alla regolarizzazione. Senz’altro le norme prevedevano il rispetto di molti vincoli. Ne possiamo elencare almeno quattro, ma alcuni potrebbero trovarne altri: i requisiti di reddito, il contributo forfettario di 500 euro, i vincoli contributivi e, infine, quelli relativi al numero minimo di ore per l’assunzione.
L’assunzione di una colf richiedeva un reddito non inferiore ai 25 mila euro, ridotti a 20 mila nel caso di nucleo con un solo percettore di reddito. Certo, era possibile aggirare, per così dire, questo vincolo ottenendo una certificazione di limitazione dell’autosufficienza del destinatario, o della destinataria, dell’assistenza. Ma questo caso accresceva paradossalmente gli oneri contrattuali per il datore di lavoro, che avrebbe dovuto assumere la lavoratrice, o il lavoratore, in una categoria contrattuale più onerosa per lui . È bene però ricordare che in passato ci sono stati vincoli di reddito anche più rigidi. Il già citato decreto flussi allargato del 2006 prevedeva, per l’assunzione di lavoratori domestici, un reddito minimo di 47 mila euro, oltre il doppio di quello previsto dalla sanatoria Tremonti.
Ma veniamo al molto discusso pagamento di un contributo, forfettario, pari a 500 euro a copertura delle spese previdenziali per il periodo precedente la sanatoria. È bene dire che il contributo era forfettario solo a parole, dato che riguardava esclusivamente il trimestre precedente l’uscita del decreto, quindi il periodo da aprile a giugno. Considerando che la scadenza della domanda era il 30 settembre, si doveva aggiungere quindi un altro trimestre di contributi, a cui andavano aggiunti i trimestri successivi fino ad accettazione avvenuta della domanda, una situazione che rendeva la qualifica di “forfettari” attribuita ai 500 euro puramente astratta. A domanda accettata, il datore di lavoro si sarebbe visto recapitare un bollettino con una somma decisamente più elevata dei 500 euro annunciati . È bene ricordare che nessun contributo di questo tipo è generalmente previsto per i decreti flussi e, quindi, non lo è stato neanche in occasione del decreto flussi “insufficiente” del 2006. Tuttavia è ben noto anche che in passato i contributi per la sanatoria solo raramente sono stati pagati dai datori di lavoro, mentre nella stragrande maggioranza dei casi furono le lavoratrici stesse a sborsare il denaro per coprire questa somma. Se vogliamo usare i 500 euro come spiegazione del basso numero di domande, dobbiamo anche spiegare perché, improvvisamente, gli stessi lavoratori che in passato mostravano un’elevata disponibilità a pagare il processo di transizione dallo status di irregolari a quello di regolari, ora non siano più disponibili a questo scambio.
Il vincolo del numero minimo di ore ha senz’altro penalizzato le colf che lavorano per molte famiglie, ma è bene non dimenticare che anche mantenere il permesso di soggiorno obbliga a un impegno minimo di 24 ore settimanali, anche se senza il vincolo di una famiglia unica. Relativamente a questo criterio, le ricerche però hanno da tempo documentato le capacità delle reti migratorie di eludere almeno in parte questi obblighi. Inoltre il requisito del numero minime di ore può esercitare effetti significativi sull’assunzione delle colf, ma solo trascurabili su quella delle badanti, tra le quali il numero di addette che supera le venti ore per famiglia è evidentemente elevato.
Ma oltre ai vincoli contenuti nella sanatoria, altre due ragioni sono state menzionate per spiegarne il fallimento: l’atavica resistenza degli italiani al rispetto delle regole e la crisi. La prima di queste due spiegazioni solleva, però, più dubbi e interrogativi di quanti non riesca a scioglierne. Sembra il classico caso di spiegazione ad hoc, dal momento che bisognerebbe capire cosa mai sia cambiato negli ultimi anni. Perché, dopo trent’anni in cui tra le famiglie italiane è prevalso un comportamento responsabile e un’elevata domanda di legalità - come mostravano i numeri elevatissimi di regolarizzazioni e l’immagine delle anziane signore speranzose ferme in fila fuori gli uffici postali solo nel 2006 - improvvisamente questo atteggiamento dovrebbe essere cambiato?
E infine l’ultima spiegazione buona per tutto: la crisi economica. Potrebbe essere proprio questa la causa del basso numero di domande? No, se è vero, come è vero, che la quota di famiglie che ha fatto ricorso ai servizi di assistenza alla persona o di collaborazione domestica o di accudimento dei bambini, misurata dalle indagini campionarie condotte annualmente dell’Istat, non mostra alcuna traccia di flessione, neanche oggi, ben oltre un anno dopo lo scoppio della crisi.
I vincoli imposti alla sanatoria hanno quindi senz’altro avuto un effetto selettivo di una qualche entità. Ma il confronto con quanto accaduto nel passato lascia qualche dubbio sul fatto che questo effetto selettivo sia stato rilevante. Da questo punto di vista la sanatoria sembra porsi in continuità con la selettività degli ultimi due decreti flussi. Questi hanno ricevuto molte domande, ma hanno prodotto una rilevante quota di esclusi, in parte a monte del processo – nella fase di indicazione dell’entità delle quote, in parte nella sua zona centrale, ovvero nella fase di accettazione o respingimento delle domande, in parte ancora, infine, a valle, dove solo una quota, decrescente nel tempo, di domande accolte si trasforma in richieste di permessi di soggiorno. Questa complessa ricostruzione suggerisce che è senz’altro vero che sono all’opera meccanismi di selezione crescenti, posti dalle politiche di regolazione degli ingressi. Ma che, accanto a questi, ne operano anche altri, se è vero che c’è chi non varca la porta neanche quando questa viene aperta.
È possibile allora che, accanto ai vincoli del provvedimento, altre ragioni siano all’opera. Ragioneremo su tre di queste. La prima è che l’ingresso nell’Unione europea abbia ridotto il numero degli immigrati che, per lavorare, hanno bisogno del permesso di soggiorno. La seconda è che i sistemi migratori che interessano l’Italia siano cambiati, perché alcuni di questi stanno trasformandosi in migrazioni da insediamento, con maggiore stabilità e minore disponibilità a lavori sub standard, mentre altri hanno carattere temporaneo e possono adottare strategie di rientro o di ricollocazione, a fronte di cambiamenti nella situazione in cui operano. Infine potrebbe essere in corso una ricollocazione dell’Italia nel sistema migratorio dell’Europa mediterranea e, di conseguenza, una relativa riduzione della dinamicità dei flussi che riguardano specificamente il nostro paese, un cambiamento messo in luce dal confronto con paesi dalla storia migratoria simile al nostro, come la Spagna.


Cambiamenti nei sistemi migratori e nella collocazione dell’Italia nel sistema migratorio europeo

Se c’è un dato trascurato nell’analisi della sanatoria del 2009 è che l’allargamento dell’Unione Europea ha sottratto una parte dei lavoratori stranieri alla necessità di stipulare il contratto di soggiorno per ottenere il permesso, con l’obbligo di rinnovarlo di fatto annualmente. L’allargamento ha infatti ridotto il numero di lavoratori per i quali il possesso di un’occupazione certificata, e quindi di un contratto di lavoro, costituisce il vincolo per poter risiedere regolarmente nel paese, non rischiare di essere condotto in un Centro di identificazione ed espulsione, non essere allontanato dal paese o essere denunciato per violazione delle norme sul soggiorno. L’uscita di una fetta consistente dell’immigrazione dagli archivi dei permessi di soggiorno è una delle ragioni, forse non la principale, ma di certo una ragione importante, della riduzione della domanda di regolarità. Per chi non deve chiedere il permesso di soggiorno, il provvedimento di emersione offriva senz’altro più costi che vantaggi, non ultimo proprio i 500 euro forfettari che, è bene ricordare, vengono in genere pagati dai lavoratori. E si consideri che tra le nazionalità esonerate dalla richiesta dei permessi di soggiorno ci sono i rumeni. Questi sono passati dai 300 mila all’inizio del 2007, agli oltre 600 mila al 1° gennaio 2008, e infine a poco meno di 800 mila all’inizio del 2009, quindi due volte e mezza in più che due anni prima. E si consideri, anche, che nel 2006, in occasione del decreto flussi eccezionalmente esteso, tra le oltre 86 mila domande di regolarizzazione provenienti da rumene, una quota variabile tra il 50 e l’80%, a seconda dell’età, riguardava il lavoro domestico . Il 2006 è stato l’ultimo in cui i rumeni dovevano chiedere il permesso per poter lavorare in Italia e l’ultimo in cui dovevano certificare di avere un lavoro per poter risiedere legalmente in Italia, entrarvi e uscirvi. Certo, già dal 2002 non era loro più richiesto il visto di ingresso per soggiorno di durata inferiore ai tre mesi, ma di fatto se uscivano dopo la scadenza dei tre mesi non potevano più rientrare per un lungo periodo, o dovevano corrompere i doganieri rumeni e ungheresi . Oggi i rumeni non possono essere trattati come gli altri immigrati, e i dati presentati in questo articolo suggeriscono che l’uscita di una quota della popolazione straniera dal novero degli “exracomunitari” coincide con l’uscita dai destinatari di un provvedimento, la sanatoria di massa, nato in un’epoca in cui l’Unione Europea aveva 15 paesi membri e all’interno delle sue frontiere non c’erano paesi di emigrazione diretti verso altri paesi della stessa Ue.
La seconda ipotesi riguarda le trasformazioni recenti dei sistemi migratori che hanno raggiunto l’Italia. Nel nostro paese convivono e si intrecciano oggi i tragitti di diversi sistemi migratori. Tali sistemi non si differenziano solo in virtù della varietà dei paesi di provenienza. La molteplicità dei sistemi migratori italiani dipende anche dai progetti dei loro protagonisti, dalle condizioni dell’insediamento, dai valori e dagli stili di vita e, infine, dallo stadio del ciclo di vita in cui essi si trovano. Sotto questo profilo, nell’Italia contemporanea, coesistono due grandi stratificazioni di sistemi migratori. La prima, emergente e sempre più al centro dell’interesse degli studiosi, è formata dalle migrazioni in cui i nuclei familiari cominciano a prevalere sui singoli o sulle famiglie monogenitore, in cui la struttura per età si avvicina tendenzialmente a quella degli italiani, in cui il rapporto tra uomini e donne è progressivamente meno squilibrato, in cui, accanto e insieme a progetti migratori centrati sul lavoro, compaiono aspirazioni all’insediamento, e perfino alla naturalizzazione. La seconda è, invece, formata da quei sistemi migratori ancora nella loro fase iniziale, quella, per intendersi, ad elevata selettività, in cui emigrano i singoli, la struttura per genere ed età è assai più squilibrata e prevalgono progetti migratori da lavoro e, almeno inizialmente, di respiro più breve. Da un punto di vista del ciclo storico, è chiaro che in Italia si sta assistendo a una transizione dal secondo tipo descritto al primo. Ed è chiaro che a questo passaggio si accompagnano altre trasformazioni. Non è detto, anzi è decisamente improbabile, che tra le giovani generazioni la disponibilità a lavori a bassa qualificazione sia pari a quella della generazione dei genitori. Non è detto, per fare un esempio pratico, che le figlie delle filippine accetteranno di ricoprire il ruolo di colf come le loro madri, anche se ci sono segni di vischiosità all’interno di questi settori e conseguenti rischi di creazione di nicchie etniche sul mercato del lavoro. Tuttavia è assai più probabile che questo non accada. In breve, sistemi migratori che hanno storicamente dato un grande contributo al lavoro domestico salariato, potrebbero con il tempo ridurre questo ruolo, o comunque non dare più un contributo rilevante. Si dirà, ci sono i nuovi sistemi migratori, che sotituiscono quelli precedenti, proprio come le filippine, a loro volta, hanno sostituito le capoverdiane e le somale. Che questo accada, però, è tutt’altro che scontato. Vediamo perché.
Nel nostro senso comune opera un quadro di riferimento cognitivo assai diffuso e sostanzialmente mai sfidato. Si pensa che i flussi migratori che hanno interessato il nostro paese si muovano in un solo verso, ovvero dall’esterno verso l’interno. La ricerca empirica ci dice che questa immagine è del tutto inesatta, e che esistono altre due importanti direttrici spesso trascurate, quella che porta, dopo un certo periodo, una parte degli immigrati entrati in Italia a dirigersi verso altri paesi e quella che li porta a fare rientro nel proprio paese di origine. La distribuzione di questi flussi tra le tre direttrici indicate è assai variabile e dipende da molti fattori. La dinamica delle reti migratorie e il maggiore o minore successo e capacità di adattamento che esse sperimentano nei vari paesi di destinazione sono senz’altro tra queste. Le condizioni di ingresso e di permanenza, le opportunità di integrazione, il grado di apertura o chiusura del mercato del lavoro, la presenza o assenza di istituzioni facilitatrici, tanto pubbliche, quanto inserite nel sistema associativo e di volontariato, sono altrettante condizioni. Quali che siano le ragioni, però, non è razionale aspettarsi che un sistema migratorio persista solo perché è iniziato. Nel passato, ormai remoto, della nostra transizione migratoria, che risale ormai alla fine degli anni Sessanta, molti sistemi migratori promettenti, sotto il profilo delle dimensioni e del loro livello di strutturazione si sono successivamente esauriti. Chi osservasse la distribuzione delle principali nazionalità tra gli anni Settanta e Ottanta troverebbe sistemi migratori scomparsi o largamente esauriti, come quello iraniano, venezuelano, jugoslavo, etiope e capoverdiano, paesi a lungo in testa nelle graduatorie per numero di presenze. È probabile che una parte dei flussi migratori oggi più dinamici possa esaurirsi nei prossimi anni, e quelli del lavoro domestico, per varie caratteristiche, sono forse tra i candidati preferenziali di questo processo. Formati da donne adulte, con vincoli coniugali spezzati alle spalle e spesso con figli, alcuni dei quali rimasti al paese di origine, i sistemi migratori moldavo, ucraino e russo potrebbero esaurirsi, o almeno potrebbero vedere la loro dinamicità ridursi rapidamente. Alcuni segni del fatto che questi sistemi migratori siano in fase di trasformazione rapida si intravvedono già. Fino al 2002 l’Ucraina non esiste come paese esportatore di manodopera verso l’Italia e infatti troviamo solo alcune pioniere. Nel 2003, quando entra nella sua fase di massa, il sistema migratorio italo-ucraino mostra i classici segni delle migrazioni altamente selettive, come lo squilibrio di genere con ben 6 donne per ogni uomo. Ma solo 5 anni dopo questo rapporto si è già ridotto a 4 donne per uomo, a riprova del passaggio a progetti di insediamento - o di ritorno se pensiamo che le famiglie restano e le donne sole con figli al paese rientrano - anche per questo sistema di dimensioni rilevanti, e non è improbabile che questo squilibro scenda ancora assai rapidamente nei prossimi anni. Se si esauriscono i sistemi migratori con elevate quote di migranti con progetti a tempo e scopo definito, si esaurirà presto anche il serbatoio dei più disponibili a entrare nel mercato del lavoro domestico, in particolare quello coresidente, con salari sub-standard e senza protezioni sociali.
Ma non sono forse solo queste due le ragioni della delusione per i numeri della sanatoria. A differenza di quanto si pensa e si scrive sui mezzi di comunicazione di massa, l’Italia, comparativamente parlando, non solo non è un paese in cui lo stock migratorio presente abbia dimensioni particolarmente rilevanti , ma non è neanche un paese che stia sperimentando una fase particolarmente dinamica sotto il profilo degli ingressi. Anzi. Molti segnali mostrano che oggi sta avvenendo proprio il contrario. La crescita continua sì, ma la velocità di questa sta rallentando assai più rapidamente di quanto osservato in altri paesi. Consideriamo il caso della Spagna (fig. 1). Partita da una situazione del tutto simile alla metà degli anni settanta, la storia migratoria di questi due paesi si assomiglia molto, per dimensioni delle migrazioni, fino alla soglia del passaggio del secolo. Ma dal 2002 le strade dei due paesi divergono ampiamente. Oggi la Spagna ha una popolazione straniera di gran lunga superiore alla nostra, e una dinamicità dei sistemi migratori anch’essa superiore.














È molto difficile sapere se i cambiamenti di cui abbiamo dato conto siano un’increspatura, l’anomalia di un caso all’interno di un modello ben consolidato, quello mediterraneo, di immigrazione. Oppure se si tratti dell’esordio di un processo di divergenza del nostro paese rispetto a quest’ultimo. Assai difficile è anche dire se siano in atto processi di riduzione della dinamicità delle migrazioni verso l’Italia da un lato e, dall’altro, di mutamento nelle condizioni dell’accoglienza, di crescita dei vincoli alla transizione dalla condizione di sans papier a quella di regolari, o di regolarizzati, di crescita delle retoriche politiche ostili agli immigrati.
Se così fosse, se questi meccanismi tendessero a rafforzarsi, interi settori del nostro sistema produttivo e del nostro welfare ne sarebbero toccati, perché l’edilizia, i servizi privati alle famiglie, il basso terziario, l’agricoltura estensiva, il lavoro stagionale e molti altri ancora vivono sul lavoro straniero. Forse è il caso di smettere di nascondercelo e di uscire da quella sindrome schizofrenica che finora ha celato sotto la coltre di enunciati politicamente assai ostili agli immigrati e aggressivi, il bisogno strutturale di questi ultimi. Sanatorie individuali, permessi di soggiorno per ricerca di lavoro e naturalizzazioni appaiono allora come una strada obbligata. Ma questo è un altro capitolo.